Elezioni regionali 2025
Perché votare?
Alle prossime elezioni regionali si recherà alle urne solo la metà degli elettori. Di questa metà, la maggioranza sarà composta da anziani, i quali ancora credono nel voto come a un feticcio che da solo rappresenterebbe tutto il processo democratico. Due terzi dei giovani diserteranno i seggi, come ormai avviene regolarmente, in particolare per il voto amministrativo in gran parte d’Europa.
Qualche domanda sulla politica e sulle istituzioni bisognerà pur farsela anziché ripetere logore retoriche e pensare che la democrazia si riduca al rito del recarsi alle urne.
Gli elettori sono disinteressati poiché non vedono una sostanziale differenza tra i programmi di partiti e liste. Percepiscono solo una competizione tra persone e fazioni come se si trattasse di un evento sportivo. Tanto più che spesso, dopo le elezioni, le fazioni contrapposte si alleano. In alternativa, cercano di smorzare i bollenti spiriti dei partiti più radicali, includendoli nei governi. Ha funzionato perfettamente con la Lega da ormai trent’anni e più recentemente con il M5S.
Nelle Regioni e negli Enti Locali, l’assenza di alternativa nel voto è persino superiore a causa della mancanza di una vera autonomia fiscale e politica; ogni scelta politica risulta pressocché obbligata e dettata dallo Stato e dall’Europa. A livello nazionale e dell’UE governa un grande centro, che è un regime di fatto, creato per fare argine a un dissenso montante ancora disorganizzato e privo di un progetto alternativo costruttivo.
Perché votare allora se il voto avrà conseguenze soltanto sui pochi che partecipano alla corsa elettorale? La partita consiste nella spartizione di risorse in massima parte trasferite la cui destinazione è rigida e prestabilita. Manca quel contenuto politico essenziale che deriverebbe dalla capacità impositiva locale e da una maggiore elasticità nell’uso delle risorse trasferite dallo Stato. A questo si aggiungono i vincoli nella spesa dettati da enormi e lontani organismi europei e sovranazionali, tra cui quelli militari, che si fanno sempre più pressanti.
Il voto tradito
Quando, nel 2017, i cittadini hanno espresso in un referendum un chiaro parere sull’autonomia regionale, si trattava di una domanda politica reale. Sono stati traditi clamorosamente.
Chi in passato ha creduto nella partecipazione democratica è stato ingannato. Gli interessi diffusi non sono presi in considerazione perché mancano progetti politici alternativi a un magmatico status quo che favorisce la stabilità del regime. Le amministrazioni locali, quindi, si confrontano solo con gli interessi organizzati ai quali redistribuiscono risorse che non hanno la responsabilità di raccogliere. Tali interessi organizzati – imprese e organizzazioni corporative sempre più enormi e meno numerose – si sentono ovviamente garantiti meglio dalla continuità amministrativa che dal cambiamento. L’insediamento di un nuovo gruppo dirigente costringerebbe a rivedere una parte dei rapporti spezzando le cordate. Nessuno di coloro che davvero contano – che non sono i politici chiacchieroni dei talk-show – lo desidera e il sistema resta imbalsamato. Persino l’opposizione preferisce, in definitiva, collaborare amichevolmente con la maggioranza nelle spartizioni limitandosi a critiche gonfiate su temi irrilevanti o sui quali Regioni ed Enti locali non possono comunque intervenire.
Un problema strutturale
Concentrati sulla competizione politica tra diverse fazioni, si sorvola su un fatto strutturale della politica degli ultimi decenni: la difficoltà di sostituire chi governa nelle Regioni e nei Comuni ridotti a uffici amministrativi più che a istituzioni rappresentative con capacità di indirizzo politico. I cittadini partecipano sempre meno alla politica a causa: (a) della riduzione del numero dei rappresentanti nei Consigli, (b) dello svuotamento del ruolo politico degli organi rappresentativi il cui potere è stato concentrato nelle sole mani del Presidente e delle Giunte, (c) della fusione di imprese di servizio pubblico sostituite da enormi e distanti multiutilities o concentrate in oligopoli e monopoli, (d) dell’acquisizione di banche locali e imprese da enormi gruppi, (e) dell’eliminazione dei Consigli di quartiere elettivi, ecc. Tutto ciò ha ridotto il numero dei cittadini coinvolti nella politica impedendo loro di formarsi, capire e agire.
La concentrazione del potere non riguarda il solo terminale (Presidente, Sindaco e domani – se non già oggi – il Capo del governo) ma una catena di comando che si estende a tutta la burocrazia sempre più immutabile e centralizzata. Anche la difficoltà incontrata nel sostituire i due ultimi Presidenti della Repubblica non è casuale e fa parte di questo schema, sebbene in un contesto e con modalità diverse.
Per oltre mezzo secolo nei Paesi occidentali, funzionava – più o meno bene – un sistema di avvicendamento tra diversi partiti che, vinte le elezioni, governavano secondo un progetto specifico e alternativo. Non servivano rivoluzioni perché se ne verificava una a ogni tornata elettorale.
Il processo di impoverimento democratico deriva anche da una questione culturale: non esistono concrete alternative e modelli politici in reale competizione. La cultura, asservita e sonnacchiosa, non fa nulla per elaborarli.
La concentrazione dei poteri, già affermatasi e portata all’estremo nelle autonomie locali, la si vorrebbe estendere al governo. Le modifiche costituzionali proposte non farebbero altro che sancire una situazione di fatto ormai quasi del tutto sedimentatasi. Che bisogno c’è di sostituire l’attuale governo che fa le stesse cose di quelli precedenti? Il prossimo governo, qualsiasi fazione vinca, non cambierà nulla se non in piccola parte il linguaggio.
Il senso dell’astensione
In questa situazione, l’astensione dal voto diventa una legittima protesta e una delegittimazione di istituzioni sclerotizzate e di conseguenza autoritarie. È triste essere arrivati a questo punto, ma dobbiamo prenderne atto. La politica oggi si fa fuori dalle “aule sorde e grige” delle istituzioni. Le grandi organizzazioni determinano le scelte, mentre il popolo poltrisce e al più mendica.
Il desiderio di autonomia, espresso dal referendum, costituiva un fatto politico essenziale, un tentativo di sottrarsi all’inarrestabile centralizzazione. È stato represso così che maggioranza e opposizione, rintanate nella torre d’avorio che condividono, hanno bloccato ogni sostanziale riforma.
Il dibattito di questi mesi preelettorali si limita a faziosità e personalismi che interessano solo gli addetti ai lavori, i quali, peraltro, sono terminali di gerarchie romane. Ci siamo chiesti perché sia così indispensabile che Zaia in Veneto, De Luca in Campania, e in Puglia Emiliano e Vendola (ma altrove, compresi i Comuni, non è diverso) presentino loro liste e candidati di loro fiducia alle elezioni. La risposta è ovvia: garantiscono gruppi di potere e cordate che non è opportuno interrompere.
Cosa possiamo fare per rilanciare un minimo di pensiero politico sull’autonomia, sulla partecipazione dei cittadini, sulle appartenenze regionali, nazionali ed europee?
Nulla, forse pochissimo: oggi, poteri economici e finanziari controllano le istituzioni e non sono influenzati dal voto.
Di conseguenza, se ci si vuole impegnare politicamente, è necessario agire fuori dalle istituzioni e contro di esse. Ribellarsi è un diritto essenziale in democrazia!
Se non sarà possibile far sentire la propria voce in modo efficace, una campagna per l’astensione e la delegittimazione delle istituzioni ha più senso di un voto vuoto.