Si può giudicare positivamente o negativamente il governo PD/5stelle, sebbene nella situazione di emergenza in cui ci siamo trovati, qualsiasi persona ragionevole e onesta lascerebbe il giudizio sospeso. Diversa è la valutazione politica dell’alleanza in prospettiva. Una collaborazione, sia pure dialettica, tra i due partiti costituisce un punto di partenza importante per aggregare il voto della parte più progressista e potenzialmente maggioritaria dell’elettorato. Tale elettorato è composto, per una parte dallo zoccolo duro del PD che, oltre ai singoli elettori, include un numero rilevante di amministratori competenti ed esperti. Per altra parte raggruppa un elettorato più giovane e disperso che richiede cambiamenti, è tendenzialmente ambientalista, innovatore, inclusivo, pacifista, interessato alla cultura, egalitario, idealista; e anche un poco confuso e sprovveduto, ma non aggressivo e cinico. Questo elettorato ha votato in buona parte 5stelle ed è alla ricerca di risposte a nuove esigenze. Le alternative a questo potenziale blocco politico sono due. La prima è la destra demagogica, oggi egemonica, costituita da Lega e da FdI che ha corrispondenti in tutti i Paesi occidentali. Rappresenta istanze nuove e modi di pensare diversi da quelli sedimentati nei gruppi politici tradizionali. Stento a trovare qualcosa di accettabile nel linguaggio e nei contenuti, ma non si può negare la novità e la competitività di una proposta politica che unisce il popolo delle partite IVA e dei piccoli imprenditori all’assistenzialismo del reddito di cittadinanza e di quota 100. I due partiti della destra demagogica e popolare riescono a cavalcare con destrezza un rabbioso desiderio diffuso e comprensibile di distruggere vecchi simulacri usciti dalla riorganizzazione del mondo avvenuta ormai tre quarti di secolo orsono, la ricerca di presunte identità nazionali e di ideali astratti, la paura degli stranieri. In questa componente sociale c’è cinismo e aggressività, ma anche realismo, senso pratico e una sfiducia nei buoni sentimenti che induce ad auspicare uno Stato e un leader forte. Il tutto tra mille contraddizioni, non superiori a quelle degli altri. L’alleanza tra Lega e 5stelle non era così abnorme come poteva sembrare: univa le componenti innovative e non rappresentate dell’elettorato entrambe animate da un desiderio emotivo di cambiamento. Ma non potevano rimanere unite proprio per la differenza sostanziale dei sentimenti e dell’antropologia culturale dei due elettorati.La terza opzione possibile è costituita dall’aggregazione di un “grande centro” conservatore che ancora non esiste. Sarebbe l’erede e l’estensione del governo Renzi-Alfano-Verdini-Calenda e prima ancora del governo Letta, le cui fondamenta furono poste da Napolitano e Monti per risalire se vogliamo fino allo strappo di Fini. Ad avviare questa operazione di restaurazione è stato chiamato per l’appunto Renzi, il quale aveva promesso di ritirarsi come Cincinnato, ma s’è trasformato in un novello Coriolano. Il grande centro sarebbe certamente degno, ma non chiamiamolo riformista, tanto meno riformatore! Né possiamo sperare che risponda alle nuove esigenze espresse da una parte ampia e crescente (anche per questioni d’età) di un elettorato che non trova una collocazione soddisfacente nella società contemporanea. Questa formazione politica in via di formazione svolgerebbe un ruolo utile per il Paese solo se fosse incalzata da una concreta possibilità di essere sostituita dall’alleanza innovativa e progressista rappresentata dal PD/5stelle, evitando avventurismi, velleitarismo e un mutamento troppo rapido. Allo stesso tempo, opererebbe per contenere la destra reazionaria riconducendola alle necessarie mediazioni. Il possibile governo Draghi apre la strada a questo blocco conservatore: un governo “non politico” è per definizione conservatore. Questo governo nascerà per distribuire i finanziamenti del Recovery Fund tra un’ampia platea di richiedenti. Draghi, che non può avere una piattaforma politica, sarà il garante di una distribuzione secondo parametri e spartizioni tradizionali ben radicate. Emblematico il Ponte di Messina, non a caso evocato da Renzi; o nel Veneto l’apertura della Lega in cambio di grandi opere nel porto di Venezia e, in definitiva, l’insistenza su infrastrutture tradizionali anziché sul rinnovamento dell’economia, del rapporto con l’ambiente e dell’istruzione. Qualcuno dirà che non c’erano abbastanza competenze nel governo Conte per potere fare un PNRR e gestirlo. Le competenze nel Paese rimangono quelle che sono sia che il capo del governo sia il primo che passa per strada, sia che arrivi un presunto Superman. Cambia invece la capacità di imprimere un diverso indirizzo politico. Conte avrebbe potuto darlo grazie alla domanda politica espressa dai 5stelle e alle competenze del PD. Draghi non cambierà nulla negli equilibri e nelle spartizioni. La qualcosa non è una tragedia come non lo sarebbe stata la permanenza di Conte. Si tratta solo di un rallentamento sulla via del cambiamento e della creatività che procederà comunque perché l’Italia è fatta da sessanta milioni di persone (e l’Europa da trecento milioni) che continueranno a lavorare e a cambiare. E speriamo anche a votare.