Americani, accademici e talebani

Tra i ricercatori circola la seguente barzelletta. Sotto un lampione, un ubriaco cerca disperato il portafoglio che ha perduto. Un passante gli chiede: “Ma sei sicuro di averlo perso proprio qui”? “No, risponde l’ubriaco, l’ho perso laggiù nel bosco, ma lo cerco qui perché c’è più luce”!

Fin dagli anni Ottanta in vari dipartimenti universitari americani si è studiata la società afghana e le sue tradizioni. E si continua a farlo. 

Gli studiosi, per quanto con diverse opinioni e grado di coinvolgimento, sono in genere intellettuali curiosi e genuinamente aperti a comprendere davvero come funzionano le società diverse da quella occidentale. Si invitavano anche studenti provenienti dall’Afghanistan allo scopo paradossale di studiare la propria stessa cultura, ma negli Stati Uniti. Erano guidati da docenti occidentali e si mischiavano agli altri studenti.

Il governo, la World Bank e le fondazioni private assegnavano cospicui mezzi economici per queste ricerche e borse di studio. Una politica culturalmente imperialista? Sì, ma in senso nobile finché c’era rispetto, ci si guardava dalle strumentalizzazioni e quando oltre a diffondere la nostra cultura occidentale, si riusciva ad apprendere dagli altri con umiltà. Questa è stata la grandezza dell’America del XX secolo, simile a Roma e altri imperi del passato.

Accadeva però che, per ottenere i finanziamenti e buone posizioni accademiche, fosse necessario pubblicare i propri scritti sulle più prestigiose riviste specializzate che stabilivano i paradigmi analitici, il linguaggio e anche i temi. Così facendo, senza imporle, si indirizzavano le interpretazioni e si (ri)cercava solo quello che si sceglieva di vedere: come l’ubriaco della barzelletta. Gli studiosi non erano certo così ingenui da sottovalutare questo problema, vi prestavano attenzione e cercavano di evitarlo per quanto possibile. Tutto questo aumentava il rispetto e la reciproca comprensione. Le cose sono cambiate da quando il rispetto e la curiosità sono state sostituite dal tentativo di imporre i nostri usi e costumi facendoci ritornare ai tempi del colonialismo.

Oggi, lo si percepisce da come si esprimono i grandi media internazionali che scelgono i temi ripresi pedissequamente dai media nazionali europei. C’è la controinformazione, altrettanto propagandistica che per lo meno offre un’altra prospettiva. Ma noi occidentali guardiamo solo le nostre reti (e la parola può essere intesa in metafora).I grandi esperti e “corrispondenti” intervistati, sia occidentali sia apparentemente afghani, se ne stanno in genere nei loro tranquilli campus o redazioni a ripetere le solite narrazioni che non c’è nemmeno bisogno di suggerire loro esplicitamente. 

Oltre a queste voci però, ce ne sono altre che sanno vedere al di là delle narrazioni mediatiche poiché hanno davvero studiato e cercato di capire. Purtroppo, i loro pensieri non sono conformi al luogo comune del momento. Per esempio, negli anni Settanta, nella fase di de-colonialismo e di ritiro dal Vietnam, si criticava con forza il c. d. eurocentrismo; Franz Fanon era citato a ogni girata di pagina e lo strutturalismo culturale di Levi-Strauss, semplificato e volgarizzato, costituiva lo schema d’analisi più adottato. L’impostazione dello strutturalismo (che incidentalmente non è mai stata la mia, nemmeno allora, ma si tratta di un paradigma rispettabile e utile) ha finito di essere un luogo comune e non se ne parla più nella vulgata mediatica. È stata sostituita da altri conformismi e retoriche che esaltano di nuovo un presunto primato occidentale, un’unica visione della democrazia e una serie di problemi che si vedono solo perché su questi indirizziamo la luce. 

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