Nel 1986, mentre visitavo Berkeley per un paio di settimane, chiesi a un amico di portarmi a Castro Street, un quartiere di San Francisco abitato quasi completamente da omosessuali, maschi e femmine. Rimasi colpito e persino commosso. Mentre a quei tempi, in Europa e negli Stati Uniti, l’omosessualità era clandestina, considerata una vergogna e segregata nelle zone più squallide delle città, Castro Street era un luogo ordinato, pulito piacevole e con una sua caratteristica culturale originale. Un luogo così non esisteva da nessun’altra parte. I ristoranti erano noti per la qualità della cucina; i negozi offrivano merci raffinate.
Oggi, non è più necessaria una Castro Street poiché a distanza di quarant’anni l’omosessualità è diventata sempre più una condizione umana normale trattata senza tabù e con rispetto. Rimangono gli anziani e piccoli gruppi, tra l’altro ben identificati, i quali cercano lo scontro e compiono atti di violenza. Se guardiamo bene, oggi, a essere meritatamente emarginati sono proprio loro, non gli omosessuali. Il pregiudizio omofobo è in gran parte caduto, demolito dalla cultura, dai film, libri, interventi sui media che si susseguono da ormai da quasi mezzo secolo. Proseguendo su questa strada, presto la “diversità” scomparirà come sono scomparsi i pregiudizi sulle convivenze, sui divorziati, sui figli illegittimi, senza bisogno di propaganda pubblica quale la giornata contro l’omofobia. La società civile sta già contrastando efficacemente e liberamente la discriminazione. Non c’è bisogno di una legge e di un’ingerenza nel privato da Stato etico e corporativo come lo intendeva il fascismo.
Sollevare il problema della discriminazione non fa altro che rallentare l’integrazione dei LGTB+ sottolineandone la diversità anziché la normalità. Se gli interventi legislativi di cui si parla in queste settimane fossero stati proposti vent’anni fa, sarebbero stati utili e coraggiosi. Oggi sono controproducenti perché reiterati fuori tempo.
Il problema sollevato dal DDL Zan riguarda (purtroppo solo tra le righe) la questione del “genere” più che l’omofobia. E la cosa si fa più interessante e tuttora divisiva. Per esempio, perché in quasi tutte le pratiche burocratiche (ma anche nel privato) si deve specificare il sesso? Perché non aggiungere obbligatoriamente una voce con “altro” e una quarta in cui ci si riserva di non rispondere? Perché non affrontare la questione dei transgender e separarli dai transessuali? Ma soprattutto, perché non diminuire l’importanza del genere (e delle preferenze sessuali) nella società? Su questo sarebbe davvero opportuno discutere e legiferare per integrare chi oggi si sente davvero emarginato. Per il resto, la società civile è in grado di gestire i problemi senza bisogno dello Stato. C’è stato bisogno di una legge o di una propaganda pubblica per convincere le coppie a convivere senza sposarsi? Eppure, questo è successo nell’arco di un decennio e in seguito s’è discusso di come regolare questi rapporti per legge. Nemmeno la Chiesa cattolica ne ha fatto un dramma! Nessuno pensa di abolire la famiglia tradizionale che peraltro oggi non è più la forma nettamente prevalente di convivenza e nella quale sono generati i figli. Istituzioni come la famiglia sono obsolete e anche le differenze di ruoli tra maschi e femmine derivano più da scelte che da imposizioni di carattere sociale e dipendenti dal corpo. Con tutte le sfumature, i processi di cambiamento in corso, i tempi del mutamento che si vorranno analizzare e valutare. E con tutto il rispetto per le famiglie tradizionali e per la vecchia organizzazione della società che ancora per qualche generazione costituirà una struttura importante della società e delle relazioni. Sono invece superflui e dannosi gli interventi di uno Stato che pretende di decretare il giusto e lo sbagliato anziché limitarsi a regolare quello che avviene spontaneamente nella società.