L’uomo delinquente

Parte prima: il disagio mentale e la violenza

Parte seconda: il femminicidio

Parte prima: Un mio amico è stato massacrato di botte da un camionista rumeno praticamente senza motivo. Il camionista è stato riconosciuto affetto da disturbi mentali, condannato e, per quanto possibile, sarà curato in un ospedale psichiatrico giudiziario.

Chi ferisce o uccide un’altra persona – donna o uomo che sia – per futili motivi e ricevendone in ritorno un grave danno, dimostra di non sapersi controllare e di avere problemi psichici più o meno gravi. In molti casi pratica la stessa violenza su sé stesso. Anche quando sembra premeditare il gesto inconsulto o si comporta in modo arrogante, lo fa in modo approssimativo e folle. Meritano la nostra pietà senza che questo ci esima dal mettere in pratica azioni per tutelarci da possibili rischi. Altri approfittano di questi casi per dimostrare, e talora esercitare un linciaggio (anche solo verbale), una speculare violenza e una patologia simile.

Persone che non controllano le proprie emozioni e una violenza connaturata ce ne saranno sempre al mondo, ma per fortuna sono poche e con qualche accorgimento la società le ha sempre tenute sotto controllo senza bisogno di uno Stato di polizia e di creare un’atmosfera di paura. 

Non sarà certo un’educazione impartita in astratto e genericamente indirizzata a tutti a cambiare comportamenti innati, violenti, autolesionisti e, soprattutto, privi di senso. Ciascun caso è diverso dall’altro e le motivazioni non sono riconducibili a un’unica causa o classificazione di tipo sociale. Al più, ma pur sempre con difficoltà, a qualche patologia rilevata. Quasi sempre, chi si lascia andare alla violenza, si pente immediatamente e molti arrivano al punto da punirsi da soli vivendo nel rimorso e, in casi disperati, togliendosi la vita.

Non c’è una soluzione definitiva in grado di prevenire tutti gli atti di violenza immotivata o folle, ma si può operare per imparare a come comportarsi di fronte a tali malati e in certe situazioni, e avere il coraggio e la forza di sopportare il dolore quando non si riesce a evitare qualche atto violento.

Uno Stato di polizia rinchiuderebbe le persone pericolose e violente preventivamente. Ci sarebbero test affidabili per individuare chi, in qualche caso, potrebbe giungere a comportamenti violenti e omicidi. Basterebbe fare test nelle scuole e queste persone sarebbero individuate fin dall’adolescenza. O magari in seguito sulla base di denunce. Chi risulta positivo al test, lo si potrebbe tenere sotto stretto controllo o internarlo preventivamente. Una tale ingerenza dello Stato nella vita privata dei cittadini, la stigmatizzazione dei devianti, l’indottrinamento (poco efficace) e infine la loro eliminazione fu una politica proposta nel Novecento e in parte praticata in molti Stati occidentali, in particolare nella Germania nazista, ma anche in USA (ricordate il film ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’?) e praticamente ovunque. 

Questo determinismo genetico positivista – di cui Lombroso fu uno dei maggiori ispiratori – è stato in seguito sostituito da un determinismo culturale che tende a giudicare la persona non come tale, ma come appartenente a un gruppo. Dal razzismo determinista biologico si è passati a quello culturale con reciproche contaminazioni: gli zingari rubano, le thailandesi si prostituiscono, i siciliani sono mafiosi e, infine, i maschi violenti. Tutto questo è contrario ai principi di una società liberale e giusta che non criminalizza nessuno preventivamente, né l’individuo né il gruppo sociale. I cittadini maturi cercano di tutelarsi dai rischi senza lasciarsi prendere da isterie collettive che provocano più danni di quanti non ne evitino.

Ma le cose stanno cambiando e, come si sta disintegrando la democrazia e sta ritornando il militarismo, così stiamo istericamente scivolando sempre più nella discriminazione e nei preconcetti ratificati da uno Stato sempre più etico… con il sostegno di maggioranza e opposizione.

Poi, a seconda della simpatia, si chiude un occhio su un dato gruppo culturale e se ne demonizza un altro. In entrambi i casi si prescinde dal giudicare sempre e solo la singola persona nella singola situazione.

Parte seconda: il femminicidio

Lungi da essere un effetto di un presunto patriarcato, l’assassinio di Giulia è la conseguenza della fine del patriarcato (sarebbe necessaria una definizione più precisa, ma accontentiamoci). Gli uomini non uccidono più le donne per motivi sociali come avveniva un tempo quando gli uomini gestivano il potere nel contesto pubblico. Oggi sono piuttosto i maschi che uccidono le femmine a seguito di patologie mentali qualche volta accentuate da situazioni di disagio sociale.

Il femminicidio ha senso come fattispecie se si inserisce nel contesto sociale, cioè se si tratta di un uomo che uccide una donna perché offeso pubblicamente dal suo tradimento, dalla sua insubordinazione e dall’offesa che questo gli comporta nella sfera pubblica. Mezzo secolo fa si parlava ancora, sia pure in contesti già molto marginali, di delitto d’onore. L’offesa ‘pubblica’ può generare anche un disagio personale, un desiderio di possesso e dei disturbi psichici. Ma essi hanno origine nella sfera pubblica e sono la possibile conseguenza di un modello, per l’appunto, patriarcale di società in cui l’uomo esercitava un ruolo predominante nella società, ma che ora non esiste più. Abbiamo introdotto il termine ‘femminicidio’ post litteram, quando ormai non era di fatto più praticato come conseguenza di una cultura. Si uccide per disperazione, per eliminare l’oggetto (la donna) che provoca un dolore insopportabile, da cui ci si sente traditi e abbandonati, di cui si pensa di non potere fare a meno, da cui si vorrebbe ricevere attenzione e amore esclusivo… motivazioni folli (ce ne sono tante quante sono gli esseri umani) e patologie di cui sono affette anche le femmine, le quali hanno reazioni diverse da quelle dei maschi e solo in casi più rari sono violente allo stesso modo. Piuttosto praticano la loro violenza con gli infanticidi che alcuni sostengono che siano sottostimati.

La società patriarcale non esiste più da molto tempo anche se ne restano le rovine e nulla di nuovo è stato ancora costruito. Semmai, potremmo dire che tra le rovine del patriarcato, regna la confusione. Una parte della confusione la provocano le associazioni delle donne che operano – in modo maschile – appropriandosi del patriarcato e prescindendo dall’idea critica basata sui rapporti di genere. Speriamo che da questa fase di transizione non si passi alle discriminazioni e si proceda invece verso una società più pacifica e giusta.

Si mette in discussione il dominio degli uomini, ma non si affronta il tema della sostituzione di una società basata sul potere e sul comando (‘arcato’ deriva dal greco ἄρχων/archon = comando/potere). Passare dal patriarcato al matriarcato non cambia nulla ed è come se al potere si alternano due fazioni, non due modi di governare. Si tratta di un modo di vedere la società e il mondo ancora molto maschile. L’opposto di un modo di pensare che pone al centro del ragionamento la critica e la fluidità di genere nonché il superamento di una visione dualistica e conflittuale. 

In questa situazione di transizione, i maschi di oggi uccidono per frustrazione personale e non per un’umiliazione pubblica come succedeva, già molto di rado, fino a mezzo secolo fa. Gli uomini di oggi subiscono le donne, non perché vogliono costringerle a ruoli subalterni e godere di presunti privilegi, come un tempo, ma perché sono disperati, fragili e (alcuni) portati alla violenza. Sono anche fisicamente più forti. Le uccidono (in casi sporadici a cui si dà molto rilievo) per i motivi più vari e ciascuno diverso dall’altro, proprio perché si tratta di casi estremamente personali e così poco numerosi da non consentire inferenze statistiche rilevanti tali da giustificare considerazioni di carattere sociologico.

Siamo sulla strada sbagliata se pensiamo ancora nei termini di mezzo secolo fa. Occorre un pensiero nuovo più efficace nel contrastare un problema grave quale gli omicidi a seguito di disturbi mentali. E fare attenzione a non criminalizzare categorie di persone invocando e alfine creando uno Stato di polizia discriminatorio e leggi che praticano la vendetta anziché la giustizia.

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