Maturità: un rito iniziatico

Regolarmente alla vigilia dell’esame di maturità vari cronisti intervistano i “maturandi”. Una delle domande più frequenti è: “Come farete a copiare durante le prove?” Le risposte rivelano – ingenuamente – centinaia di sotterfugi e furbizie di cui tutti si vantano, compresi taluni cronisti che ammiccano alla disonesta creatività dei giovani. A pochi passa per la mente che questo atteggiamento truffaldino verso un esame rappresenta almeno tre cose.

Primo che la scuola comunica insicurezza agli allievi che temono il giudizio e non si sentono all’altezza del compito. Secondo, che le proprie inadeguatezze si superano con l’inganno. Terzo che gli insegnanti sono percepiti come giudici selezionatori prima che come educatori. C’è qualcosa di indubbiamente sbagliato.

L’esame di maturità, a cui si stanno sottoponendo migliaia di giovani, avrebbe come scopo di accertare le competenze acquisite al termine di tredici anni di scuola. Il titolo acquisito è importante perché ha valore legale anche se qualcuno lo vorrebbe abolire avendone qualche buona ragione. Da oltre un secolo, l’esame di maturità è diventato anche un importante rito iniziatico contemporaneo che segna il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza. Prima per le sole classi borghesi, oggi per quasi tutti.

Nei paesi con cui usualmente ci confrontiamo, questo spartiacque della vita viene vissuto in modo ancor più evidente. All’estero, soprattutto negli Stati Uniti, la gran parte dei giovani, una volta diplomati, lascia la famiglia sia che vada a studiare all’università, sia che cerchi un lavoro. Preferiscono condividere appartamenti e vivere una vita (temporaneamente) modesta in cambio di libertà e per mettersi alla prova. Spesso sono gli stessi genitori a incoraggiare l’utile distacco.

Invece, in Italia la maggior parte preferisce continuare a vivere in famiglia. Giovani e genitori preferiscono rivendicare migliori servizi di trasporto pendolare e scelgono università presso casa piuttosto che rivendicare il diritto ad affrontare (gli uni e gli altri) la vita “da soli”. Il sistema pedagogico della scuola italiana, anziché incoraggiare il distacco dalla famiglia di giovani in cerca di maturità e di sfide, si allea in modo conservatore con genitori che istintivamente non vorrebbero mai vedere i figli ‘lasciare il nido’.

Un’altra differenza sta nell’età a cui si consegue il diploma di maturità, cioè la conclusione dell’istruzione secondaria. Quasi ovunque l’esame si fa a diciotto anni e coincide con l’acquisizione della maggiore età. In Italia si procrastina la scuola media fino ai diciannove anni che per i numerosi ripetenti diventano venti o ventuno. Non ci sarebbe da preoccuparsi eccessivamente di questo, sebbene un anno in più a quell’età cambi molto i giovani, soprattutto i maschi. Il problema serio, invece, sta nella struttura organizzativa delle scuole e nei metodi didattici che rimangono pressoché gli stessi per bambini di undici anni e per giovani di diciannove. Altrettanto vale per i regolamenti scolastici che non distinguono tra età diverse.

Per gli allievi, l’ultimo anno di scuola diventa non solo una perdita di tempo, ma crea altresì tensioni e frustrazioni in un’età in cui i giovani sono già bravissimi a crearsele da soli. L’esame di maturità da utile rito di iniziazione all’età matura diventa simbolico di una struttura pedagogica da rivedere profondamente poiché comunica valori vecchi e sbagliati

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