Antonio Negri e io

“David, io penso che non esista una situazione finale oltre il capitalismo, ma che il compito degli intellettuali e dei rivoluzionari consista nell’opporsi di continuo al potere costituito che si nasconde e va cercato in contesti che mutano in continuazione”.

“Corrado, io penso che la costruzione di una società comunista sia un obiettivo possibile e concreto”.

Questa conversazione aveva luogo nella primavera del 1980 tra me e David Harvey alla Johns Hopkins University a Baltimora. Harvey era un marxista, diciamo così, ortodosso. Io non lo seguivo su questa strada e mi ispiravo piuttosto a un liberalismo radicale. Mi domandai quali fossero le radici del mio modo di pensare. Penso che le lezioni di Negri (e di alcuni suoi allievi), che seguii all’università nei primi anni Settanta, mi abbiano influenzato.

Quando nel 2000 lessi, appena uscito in inglese “Empire”, ne rimasi affascinato anche perché, grazie alla collaborazione di Hardt, il testo era di facile lettura senza rinunciare alla profondità. Con non poca civetteria e provocazione, nelle note sugli autori si presentò così sul risvolto di copertina dell’edizione americana: “Antonio Negri è un recluso nel carcere di Regina Coeli a Roma. Precedentemente ha insegnato all’Università di Padova e alla Sorbona a Parigi”.

Qualche mese dopo, in un dibattito televisivo, sorprese Innocenzo Cipolletta, espressione (intelligente) del capitalismo industriale italiano, sostenendo un’idea di Stato minimo e di libero mercato: “Non avrei mai pensato di trovarmi d’accordo con Toni Negri”, disse Cipolletta a cui sfuggivano i fondamenti filosofici del suo interlocutore.

In effetti, Negri s’era reso conto che il potere non era più nel capitale che a stento poteva definirsi privato, ma nelle grandi strutture e nel pensiero unico, compreso quello creato dal welfare. Da queste poche note, in parte autobiografiche, si può già comprendere come il principale antagonista di Negri fosse il PCI che contribuì in modo determinante alla persecuzione politica di Toni Negri e dei suoi allievi. Non erano pericolosi per le manifestazioni e le violenze di piazza, ma perché rappresentavano un pensiero profondamente diverso e contrario a ogni potere. Solo i socialisti e, soprattutto, il radicale Pannella, si opposero alla persecuzione che si rivelò alla fine pretestuosa se non proprio montata ad arte.

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