Cos’è cambiato in questi cinque anni di legislatura europea? Molto, troppo e non in modo virtuoso. Potremmo esordire con una buona notizia: oggi c’è molta più Europa di cinque anni fa. Il governo europeo s’è consolidato a seguito della pandemia e, subito dopo, della guerra. Ma il processo di integrazione verso più Europa ha perso l’anima popolare e s’è avviato nella direzione sbagliata. Sono stati accantonati alcuni dei principi fondanti elaborati a Ventotene: (a) la sussidiarietà è stata sostituita dal centralismo e dall’ipertrofia burocratica; (b) la dialettica politica è evaporata; (c) l’allargamento a est ha creato problemi culturali e confitti; (d) la guerra è stata reintrodotta come strumento per la soluzione dei conflitti e oggi il riarmo sembra la preoccupazione maggiore.
L’esito della prossima commedia elettorale sarà la ripetizione della maggioranza Ursula, cioè una delle solite grandi coalizioni – di fatto o esplicitamente dichiarate – praticate nei maggiori Paesi europei da oltre un quarto di secolo. Ci si arriverà dopo strascicate contrattazioni tra addetti ai lavori. Più delle urne mute, incidono sui governi le ricorrenti rivolte corporative di piazza. La crisi odierna della democrazia europea passa per la scomparsa delle alternative. La partecipazione alle elezioni è in continua diminuzione.
La percentuale degli elettori anziani è superiore a quella dei giovani. Questi ultimi, anche in termini assoluti sono molto meno degli anziani ed evidentemente disinteressati al voto. Nonostante il grande rilievo dato dai media ai pettegolezzi, si trae la conclusione che il popolo, e i giovani in particolare, ritengono inutili le elezioni. Siamo di fronte a una politica talmente ridotta a cabaret che persino nei cosiddetti programmi di approfondimento si invitano i comici. Il popolo cita le battute di Crozza anziché le dichiarazioni dei rappresentanti. Di questa crescente disaffezione per il voto, le forze politiche di maggioranza e opposizione non se fanno alcun cruccio.
La partecipazione al voto si colloca il più delle volte attorno al 45% e talora scende sotto il 40%. Pochi oligarchi offrono i loro contributi ai candidati di due soli partiti o coalizioni. È credibile una ‘democrazia’ come quella americana in cui esistono da oltre 150 anni solo due partiti e sempre gli stessi? Noi europei stiamo imitando quel sistema sgangherato anziché valorizzare il nostro che pure, quanto a legittimità, ha perduto gran parte del consenso anche a causa di leggi elettorali truffaldine e dichiarate contrarie alla Costituzione.
Il risultato del malfunzionamento delle rappresentanze politiche ha implicato un progressivo e ormai inarrestabile svuotamento del potere esercitato dalle istituzioni che non rispondono a soggetti espressi dal popolo. I ‘poteri forti’ ci sono sempre stati, ma fino a un quarto di secolo fa dovevano passare attraverso i partiti e altre organizzazioni per esercitare la propria influenza, legittimando così le istituzioni. Da tempo, invece, sono indifferenti al rito elettorale trasformatosi in un vuoto esercizio retorico. Di questo i cittadini se ne sono accorti e non vanno a votare nonostante la martellante propaganda dei talk-show e la concentrazione su un unico ‘Cesare’ o ‘Bonaparte’.
Nel programma dei diversi schieramenti, non v’è nulla di veramente alternativo nelle cose essenziali. Si parla sempre e solo di ‘vincere’ e ‘perdere’, non di cosa fare. Nel migliore dei casi come se si trattasse di una corsa, nel peggiore di una guerra. E anche le guerre si discutono con il vuoto linguaggio di vittoria e sconfitta, dell’orgoglio ferito anziché con la discussione dei motivi che le hanno provocate. Ricordiamo solo lunghe serie di insulti e di torbide trame per stabilire alleanze estemporanee. Sulle cose essenziali la politica è diventata un cabaret dove si recita la farsa del governo con il botteghino che piange.
Dopo le elezioni, monterà un chiacchiericcio che terrà allerta l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori (giornalisti e politici di periferia). Alla fine, qualsiasi sarà il risultato della partita, nessuno prenderà decisioni con il consenso del popolo. Basti vedere come in Italia, Meloni (e gli altri prima di lei) abbia completamente cambiato idea su tutto conservando soltanto il linguaggio vuoto che suscita un’altrettanta fatua irritazione nell’opposizione. Non si valutano le alternative alle guerre e al ridisegno della geopolitica in corso. Non ci si accorge della ipertrofica concentrazione dell’economia reale e finanziaria che porta anche a ingiustizie sociali. Si è consolidato il “salotto buono” da cui gli eletti prendono ordini, ma non entrano.
Questo sistema oligarchico non è in grado di compiere una sintesi politica. Non può procedere a quelle profonde riforme ritenute necessarie da gran parte della popolazione e dagli stessi singoli oligarchi. In passato, in una situazione prossima a un’economia di mercato, la politica era stata in grado di guidare – più o meno brillantemente – alcune trasformazioni epocali. Nel sistema politico Europeo e Americano gli oligarchi non sono più una classe sociale quale fu la borghesia egemone del ventesimo secolo. Sono pochi gruppi in competizione tra loro. A differenza della borghesia capitalista, operano tramite la finanza nei settori più disparati. Non sono specializzati in un singolo settore produttivo, ma nel controllo – tramite di una finanza indipendente dai governi – della filiera delle produzioni. L’obiettivo degli oligarchi è il controllo del sistema, non l’accumulazione di ricchezza per mezzo dell’ampliamento della produzione e la conquista di mercati.
La competizione oligopolista favorisce tuttora il progresso tecnico, ma impedisce di elaborare una nuova tecnologia e di una scienza indipendenti. Non consente nemmeno di accordarsi per operare riforme poiché manca la guida delle istituzioni. I nuovi imprenditori creativi non costituiscono ancora una classe sociale in grado di porsi collettivamente in modo dialettico. Né lo è un popolo disperso e distratto che dalla lotta di classe per porsi in modo alternativo alla borghesia, è passato a un rancoroso odio di classe e ora versa in una condizione passiva di invidia generalizzata verso i genericamente più ricchi.
La democrazia dell’alternanza tra socialismo e liberismo s’è trasformata da ormai un quarto di secolo in una ripetitiva ‘grosse Koalition’ dichiarata o di fatto. Peraltro, in Italia il ‘bipartitismo imperfetto’, teorizzato da Galli come variante del bipartitismo classico di Sartori, ha dato luogo a un partito egemone (la Democrazia Cristiana) senza possibilità di alternanza a causa degli accordi internazionali che impedivano al (consenziente) Partito Comunista di accedere al governo. Eppure, questo non è mai stato considerato un vero deficit di democrazia, tanto meno un vero regime. Oggi conta di più una rivolta corporativa di qualche migliaio di persone del voto che centinaia di milioni di europei esprimeranno a maggio. Che fare?