Guerra e neo-militarismo

       Perché una cosa per noi così assurda e lontana come la guerra, per altri popoli fa parte della cultura e della quotidianità? In queste settimane ho trovato una risposta rileggendo ‘Guerra e pace’ di Tolstoj e ritornando con la mente ai racconti di mio nonno, un ufficiale nella Prima e Seconda guerra mondiale.

       Se vogliamo capire il perché delle guerre (ed evitarle) dobbiamo renderci conto che in altri Paesi e culture, anche occidentali (su tutte gli Stati Uniti e Israele), il militarismo e il culto della guerra e della violenza costituiscono un elemento fondante nella formazione di larga parte dei cittadini. Sebbene noi europei siamo lontani oggi da questa mentalità, in passato ne eravamo pregni e il rischio che ritorni non è mai del tutto scomparso. Diciamo inoltre che le guerre, da che mondo è mondo, le decidono pochi pazzi al potere per motivi sostanzialmente personali. Le guerre ci sono perché ci sono i militari. È sbagliato credere che i militari ci siano perché c’è la guerra! Della guerra non c’è alcuna necessità. Ma quando i militari occupano una posizione egemone in una società, si forma anche una insana cultura della guerra, una narrazione che induce a esaltarla.

      Il fascismo e i partigiani

Il fascismo e il nazismo si diffusero tra i reduci della Grande Guerra, aizzati dai generali e foraggiati da un’industria militare recalcitrante a riconvertirsi in economia di pace. Quando una quota rilevante dell’economia e della società si fonda su eserciti e militari, una parte dei cittadini non ha alcun desiderio di cambiare un modo di vivere e pensare su cui ha costruito la propria identità e il potere che detengono. Altri temono di impoverirsi nel caso si paventasse l’ipotesi di riconvertire l’industria militare. Non si è mai sentito nemmeno il sindacato, anche quello di sinistra, impegnarsi per la riconversione dell’industria bellica. Quasi tutte le persone ancora in vita in Europa non hanno conosciuto la guerra. Non solo! Abbiamo rimosso anche la cultura della guerra, la glorificazione e il mito di essa. La negano oggi persino i post-fascisti nonostante il fascismo sia nato anche sul mito della guerra e dell’imperialismo agitato dai reduci. 

       Non hanno più una cultura della guerra nemmeno i rivoluzionari di sinistra, i quali pure fino agli anni ’70, epigoni di rivoluzioni riuscite e della lotta partigiana, non rifiutavano la pratica delle armi e della violenza. Negli ultimi ottant’anni in Europa occidentale si è virtuosamente fatto di tutto per considerare la guerra una vergogna dell’umanità. Con il passare degli anni s’è allontanata sempre più l’idea che la guerra fosse una concreta possibilità con cui confrontarci.

       L’abolizione del servizio militare obbligatorio, un tempo una specie di rito iniziatico per i giovani, ha trasformato la guerra in un lavoro specializzato. È stata sradicata dalla mentalità comune l’idea democratica ottocentesca di essere tutti parte di un esercito popolare per un’eventuale difesa della patria (se proprio necessario).

       Ancor meno si è considerata la guerra un evento purificatore, il luogo morale oltre che materiale dove si liberano le più elevate qualità umane quali l’eroismo, la generosità, la fratellanza con i compagni d’arme, lo spirito di sacrificio per il bene comune e per la famiglia. Questa retorica si è volatilizzata ormai da oltre mezzo secolo. Per nostra fortuna. I militari, che fino alla Seconda guerra mondiale godevano di prestigio anche in Europa, sono stati a lungo sminuiti e persino ridicolizzati. Almeno fino a qualche tempo fa… adesso è arrivato Vannacci e riecheggia qua e là qualche accento militaresco. 

       Il complesso militare industriale americano

Peccato che lo stesso non sia successo negli Stati Uniti che hanno demilitarizzato Italia e Germania e, riconvertendone l’economia, hanno ridotto ad alleati satelliti anche Francia e Regno Unito senza rinunciare a conservare le proprie basi militari in Europa. Il pericolo di un eccessivo peso del complesso militare-industriale negli Stati Uniti era stato denunciato fin dagli anni Cinquanta da vari economisti e politici, ma la corsa agli armamenti non fu mai fermata. Lo stesso avviene in Israele dove il militarismo e il culto della patria collegata alla guerra e alla violenza contro il nemico rimane un elemento fondante nella formazione dei cittadini e dell’identità nazionale. 

       Il nemico è necessario per la conservazione del complesso industriale-militare oggi diventato anche finanziario-militare. Il militarismo degli Stati Uniti e di Israele impedisce la diffusione dei migliori valori occidentali di pace e progresso, di quei valori nei quali siamo cresciuti e a cui a un certo punto abbiamo di nuovo abdicato o siamo sul punto di farlo. Chi oggi detiene il potere in USA e Israele – cioè, più o meno direttamente, i militari – coltiva la paura dei cittadini facendo loro credere di essere continuamente minacciati e facendo di tutto per esserlo davvero per mezzo di provocazioni e del rifiuto di perseguire la pace. All’ovvia obiezione che non solo gli USA e Israele perseguono la guerra, si risponde che in questi casi, la colpa è sempre del più potente e fino a oggi da mezzo secolo i più potenti sono gli Stati Uniti con l’Europa al seguito privata di ogni autonomia politica e militare. 

Il tramonto della cultura della tolleranza  

  Il successo politico, economico e culturale degli Stati Uniti nella seconda metà del secolo scorso avrebbe consentito la diffusione di una cultura della tolleranza e della pace anche in quei Paesi e quelle culture che glorificavano la guerra. Invece, la nostra cultura della pace è stata sconfitta dalle culture della guerra: non eravamo abbastanza forti e gli interessi dei militari e la cultura della violenza ha prevalso. È prevalso il detto nichilista: “chi combatte i draghi, diventa drago”! Non abbiamo creduto che si potessero combattere i draghi conservando la propria purezza.

       La cultura della guerra, presente in altri Paesi, ha fecondato il virus della violenza che covava nella nostra civiltà. Per questo siamo diventati deboli rispetto alle altre culture. Abbiamo perduto l’identità della nostra civiltà che costituiva la nostra forza. Accettando di combattere l’inciviltà con le stesse armi dell’inciviltà ci stiamo snaturando e saremo sconfitti. Perché? Perché veniamo meno al nostro modo di essere e pensare e rimarremo tra noi siamo divisi: una parte di noi accetterà di imbarbarirsi per combattere i barbari, ma un’altra parte conserverà la fedeltà agli antichi principi di pace e fratellanza. Gli ‘altri’ sono e saranno più compatti nel percepirci come nemici e si rinforzeranno in una cultura della guerra e della violenza che non è la nostra. Noi europei, mancando della cultura della guerra, non riusciamo a comprendere davvero quanto avviene in altri Paesi dove i cittadini sono imbevuti di militarismo dalla famiglia, dalla società, dalla scuola, dallo Stato. 

       Morire per la patria

La frase di Orazio ‘dulce et decorum est pro patria mori’ (piacevole e degno è morire per la patria) lascia freddi i nostri cuori, ma ancora attenua il dolore dei parenti dei soldati caduti imbevuti di retorica patria e militare. Accanto al militarismo e al culto della violenza si nutre il desiderio di una catartica e ‘naturale’ vendetta. Governi criminali e di criminali – e di militari – anziché smorzare la sete di vendetta, l’alimentano per conservare una condizione di guerra continua.

       Su chi è nato e cresciuto nei territori palestinesi occupati, nel Caucaso e nel Kurdistan investiti da conflitti etnici, in Bosnia e nel Kossovo occupato o in Afghanistan, la frase di Orazio fa presa e la fa anche sui militari americani – appartenenti quasi tutti a minoranze etniche o a famiglie povere – mandati a morire in tutto il mondo. I genitori di un guerrigliero palestinese sopportano il dolore per la morte di un figlio in battaglia perché lo considerano un eroe della patria. Altrettanto fanno i genitori di un soldato israeliano mandato a morire per compiere un genocidio. Ha funzionato in passato e per molti ancora funziona: per questo abbiamo tanti valorosi combattenti e genitori orgogliosi dei figli al fronte in molti Paesi!

       Per questo esaltiamo ancora e oggi in modo crescente le assurde guerre del passato: la guerra al nazi-fascismo fu necessaria… forse, ma cominciamo a considerarla una sconfitta per coloro che non furono capaci di evitarla! Trasformiamo i pacchiani e tronfi monumenti che celebrano i caduti in luoghi di tristezza e rispetto dei morti, di condanna della guerra e non della sua glorificazione.

Il nonno ufficiale e Tolstoj

       Mio nonno fu un ufficiale e visse il periodo più esaltante della sua vita e della sua gioventù durante la Grande Guerra. Tornato dal fronte, non aveva più niente da fare e aderì con entusiasmo al fascismo per continuare a combattere. Era intriso di valori risorgimentali e nazionalisti e mi raccontava della guerra come un grande gioco, come un’occasione per dimostrare buoni sentimenti, virtù, coraggio e rispetto per il nemico che alla fine era una specie di avversario sportivo e non qualcuno da odiare sebbene in gioco ci fosse la vita. A quei tempi era così tra gli ufficiali! Anzi, proprio perché la posta era alta, il gioco era più affascinante. Non si fece mancare ferite, medaglie e fu protagonista e testimone di avventure ed efferatezze. Non era né cattivo, né crudele e tantomeno violento, ma amava la guerra perché quella aveva studiato all’Accademia di Modena ed era tutta la sua vita. Ascoltarlo era affascinante.

       Rileggendo dopo quarant’anni Guerra e pace di Tolstoj, sono incorso in una descrizione che mi ha ricordato i racconti del nonno, ma anche di tutti gli adulti della mia infanzia. Ho pensato che, essendo nato nel 1950, tutti gli adulti che ho conosciuto durante la mia infanzia erano stati educati nel periodo fascista che faceva del militarismo un fondamento della propria ideologia: ‘libro e moschetto fascista perfetto’. Questa mentalità non fece alcuna presa si di me un po’ per il mio carattere e un poco perché gran parte della cultura che mi circondava – grazie a Dio – contrastava e sviliva la ‘cultura della guerra’. Però da bambino giocavamo tutti alla guerra e i giocattoli più graditi erano pistole e fucili. 

       L’eliminazione della guerra dalla nostra cultura non è avvenuta immediatamente. Le idee non si cancellano con un colpo di spugna e ci vollero trenta e più anni per eliminare quasi completamente l’idea della guerra dal pensare comune. Le sommosse del ’68 e le tentate rivoluzioni degli anni Settanta erano ancora in parte ispirate al culto della violenza e all’idea di una lotta di liberazione armi in pugno, come durante il Risorgimento, nella lotta partigiana e nelle rivoluzioni proletarie che avevano avuto successo in alcuni Paesi. Si trattava di una cultura minoritaria già a partire dal dopoguerra, ma che si esaurì definitivamente soltanto con gli anni Settanta durante i quali subimmo i postumi.

       Tolstoj in ‘Guerra e pace’ descrive i sentimenti e le situazioni con l’intensità e la profondità di una persona che aveva vissuto la guerra in prima persona. Nelle sue descrizioni ho ritrovato la stessa esperienza del nonno: la paura di morire che non ti fa rinunciare al desiderio di rischiare, anzi lo accentua; sconfiggere il nemico mettendoti in gioco e sapendo che puoi perdere; il desiderio di compiere l’impresa gloriosa e magari raccontarla abbellendola con un po’ (o molta) fantasia.

Conclusione

       La guerra è tanto bella quanto stupida soprattutto quando coinvolge drammaticamente persone a cui non interessa affatto – e sono la maggioranza – o che sono manipolate da chi ama la guerra o su di essa specula. I sentimenti che inducevano i giovani del passato a combattere oggi sono traslati nel più pacifico sport: la stessa adrenalina che mio nonno scaricava andando all’assalto con i suoi ‘Arditi’, la si prova buttandosi in discesa libera sapendo che ci si può davvero fare male; o scontrandoti con un avversario in una partita di football o match di pugilato; persino una corsa di mezzofondo – apparentemente più tranquilla – suscita i sentimenti che Tolstoj attribuisce al giovane Rostov al momento dell’attacco di cavalleria. 

       In conclusione, la guerra è una grande manipolazione che alcuni popoli subiscono. Noi europei siamo riusciti a liberarcene per qualche decennio, ma il pericolo che ritorni è dietro l’angolo! 

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