Un’introduzione etimologica
Sport è una di quelle parole usatissime nel linguaggio comune il cui significato rimane vago e comprensivo di attività e atteggiamenti molto diversi. L’etimologia della parola “sport” può ricondursi al significato di metafora. Infatti sport è una parola inglese che deriva dal francese antico “desport” e poi dall’inglese “disport” a sua volta di chiara origine latina. Significa de-portare, spostare, cioè portare da un’altra parte. Metafora è invece di origine greca, ma grosso modo ha lo stesso significato. Nel secoli sedicesimo e diciassettesimo, la parola “sport” in inglese era usata appunto con il significato di metafora. Shakespeare fa dire a Bruto, nel Giulio Cesare: “How many times shall Caesar bleed in sports”? (quante volte Cesare sanguinerà per … sport?) alludendo appunto alla simbologia dell’assassinio politico di un potenziale dittatore. Nel corso dei secoli il significato è cambiato più volte. A turno con “sport” si è inteso il divertimento – anche collegandolo al significato etimologico, vale a dire di spostarsi-evadere dalle normali occupazioni – oppure competizioni e agonismo. Ma qui preme rilevare il contenuto metaforico della parola: infatti, se lo sport è metafora, il discorso non può che ricondursi a un’immagine traslata della società e dei comportamenti dei singoli. Di conseguenza, dall’analisi dello sport si può passare a quella di alcuni valori espressi nella società contemporanea, tra cui il rapporto tra umanità e natura.
La separazione tra mente e corpo
Per sport s’intendono molte cose che vanno dall’agonismo esasperato al mero divertimento ottenuto per mezzo di una blanda attività motoria. Si passa da spettacoli (Olimpiadi, campionati di calcio, Formula 1) e manifestazioni (maratone urbane, Marcialonga, biciclettate) di massa a pratiche esclusivamente personali (Yoga, jogging). Sebbene con il termine sport si comprendano attività molto diverse, si può riunire il significato attuale nell’unica voce della pratica motoria, prossima a una generica cultura del corpo. La cultura occidentale ha storicamente stabilito una chiara separazione tra corpo e mente (anima) assieme ad altri dualismi grosso modo dello stesso ordine quali ragione/natura, ragione/emozione ecc. L’idea che la mente (soggetto) avesse il dovere morale e la capacità di controllare e domare il corpo (oggetto) è stato un concetto fondante della cultura occidentale moderna, ancorché ripetutamente contestato da alcuni pensatori le cui idee tuttavia non hanno finora influenzato significativamente il comportamento di massa. La questione, oltre che nei termini filosofici accennati, si presenta come un fenomeno sociale a causa della grande diffusione che lo sport ha acquistato nella società contemporanea. Inoltre, la specifica relazione culturale tra mente e corpo incide direttamente sulla psiche di chi pratica (soprattutto alcuni) sport e specificamente l’atletica e il nuoto. Queste due discipline, per la loro semplicità, sono emblematiche della sfida tra umanità e natura che avviene a uno stato più puro che in altri campi. Esse includono, inoltre, un’altra caratteristica importante del pensiero moderno, vale a dire l’esigenza di misurabilità oggettiva e globale che ci conduce a elencare un ulteriore dualismo proprio del pensiero moderno: il personale contro l’universale.
La natura minacciata
Il movimento olimpico nasce e si sviluppa nel contesto del processo cosiddetto di modernizzazione occorso tra ottocento e novecento. La modernizzazione, inizialmente limitata a poche aree urbane, s’è diffusa in tutta la società soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Tipicamente, essa comprende altri fenomeni quali l’industrializzazione e l’urbanizzazione. La secolarizzazione, che rappresenta un terzo aspetto della grande trasformazione occorsa, ha ridotto il senso del sacro nel pensare comune e ampliato i limiti consentiti all’azione umana sulla natura favorendone la reificazione e l’artificializzazione. In un rapporto circolare di causa ed effetto con il processo di modernizzazione, tra l’ottocento e il novecento s’è progressivamente imposta in tutto il mondo una tecnologia sempre più potente e invasiva – divenuta infine autoreferenziale – elaborata allo scopo di produrre profonde e rapide modificazioni ai processi naturali. La natura, un tempo guardata con deferenza e timore dall’umanità, è divenuta qualcosa da sottomettere, trasformare e usare. Inizialmente questo processo è avvenuto nella mente, vale a dire è stato il frutto dell’imporsi di un – anzi “del” secondo alcuni – metodo scientifico che ha collocato il punto di vista dell’essere umano fuori dalla Terra e, allo scopo di comprenderla, ha scomposto la realtà in parti sempre più piccole (riduzionismo[1]). Quando il processo di soggiogamento e di scomposizione ha superato alcuni limiti, dalla paura della natura ci si è volti alla preoccupazione per la sua distruzione[2] e quindi all’esigenza di proteggerla. Jonas (2002-1979) introduce il suo classico saggio sull’etica ambientale – “Il principio responsabilità” – con il coro dell’Antigone di Sofocle. Vi si descrivono i controversi sentimenti di un essere umano apparentemente inerme e spaventato da fenomeni incomprensibili e incontrollabili il quale tuttavia riesce alla fine ad averne ragione, pur continuando a sentirsi piccolo di fronte alla grandezza e complessità del creato.
Tutto questo è cambiato almeno a partire dalla metà del novecento. Hannah Arendt (1994-1958), elaborando sul ruolo del metodo scientifico, rileva il cambio epocale nel momento in cui Gagarin riesce a vedere la Terra da un punto (archimedeo e cartesiano) posto fuori di essa così da percepirla come un elemento “altro” rispetto all’intelletto umano. Altri fissano la data dell’inizio di una nuova era nel giorno in cui fu sganciata la bomba su Hiroshima, quando per la prima volta l’essere umano si dimostrò in grado di distruggere non solo le proprie opere, ma il mondo intero, incluso se stesso. L’atteggiamento verso la natura è cambiato ed è cambiato da tempo anche se, come è sempre stato, le strutture economico-sociali e gli schemi di pensiero si adattano con lentezza ai nuovi sentimenti.
Sport e ambiente nell’Antropocene
La mentalità con cui si pratica e insegna lo sport è dunque figlia della modernità e non ha ancora recepito nel profondo il cambiamento epocale nel rapporto tra umanità e natura che già fa parlare alcuni dell’inizio di una nuova era geologica, definita Antropocene[3]. Il motto olimpico “Citius, altius, fortius” (più veloce, più alto, più forte) non esprime solo il desiderio di conoscere i limiti delle capacità umane accontentandosi di essere “armoniosamente” e semplicemente veloce, alto e forte. Il senso del motto è invece superare quei limiti rispondendo a un contesto etico condiviso e applicato a tutti i campi dell’azione umana. La modernità, l’industria e la scienza stessa – in senso lato il pensiero moderno – non si accontentano di accondiscendere la natura, ma la vogliono creare, rendere artificiale – un oggetto prodotto piuttosto che un bene trovato o persino divinamente concesso in comodato. L’eclissi del sacro – la secolarizzazione – induce l’essere umano a diventare “creatore”. Se questo è l’atteggiamento verso la natura in generale, perché allora il corpo deve sottrarsi a questo modo di pensare? E quindi perché la pratica sportiva dovrebbe seguire principi diversi? Risposte che negano la riposta implicita in queste domande retoriche sono certamente possibili – altrimenti non scriveremmo questo articolo – ma bisogna ammettere che non sono né facili né immediate e soprattutto, vanno contro un pensare comune sedimentato.
La separazione tra morale e scienza – con la seconda sempre più ridotta a (o per lo meno condizionata dalla) tecnica – ha ribadito il distacco tra un corpo che viene trattato dalla mente (superiore e libera) come un oggetto (inferiore e servo) manipolabile, come una macchina da perfezionare e migliorare. Il corpo non fa parte dell’”io”. Parafrasando Cartesio, io sono perché penso; di conseguenza è irrilevante avere un corpo. La metafora dell’atleta-macchina è sovente riportata nella linguaggio mediatico sportivo. La separazione tra scienze e discipline umanistiche, con la prevalenza incontrastata delle prime, emerge evidente nella formazione di laureati in scienze motorie. Nei curriculum accademici domina lo studio dell’anatomia e della fisiologia affrontati secondo paradigmi tradizionali. Per quanto i corsi di laurea includano cenni di discipline sociali, psicologiche e giuridiche, essi sono incardinati prevalentemente nelle facoltà di medicina. La psicologia dello sport s’è sviluppata più nella direzione della massimizzazione delle prestazioni dell’atleta di vertice e meno per generare un corretto equilibrio tra corpo e mente. Ancor meno per porre in discussione le basi epistemologiche ed etiche delle pratiche motorie.
Impianti al posto di ambienti: una passione per l’omologazione
La standardizzazione – il dualismo tra personale e universale a favore del secondo – costituisce un altro aspetto della modernizzazione che ha notevolmente influenzato il modo di concepire lo sport. Essa include il desiderio e la necessità di applicare sistemi di misura oggettivi delle prestazioni. Va da sé che la standardizzazione e la misurazione tendano a impoverire le diversità, le abilità e la varietà infinita dei contesti umani e geografici. L’affermarsi di questo approccio e di questa esigenza hanno portato a ghettizzare la pratica sportiva in ambienti dedicati – gli impianti sportivi – sottraendola agli ambienti naturali in cui s’erano sviluppate[4].
Questo atteggiamento che affonda le radici nell’ormai secolare storia della modernità condiziona profondamente l’idea contemporanea dello sport sia a livello di singolo atleta, sia come organizzazione complessiva. Dal punto di vista sociale, lo sport non è diventato globale nel solo senso mediatico dell’importanza assunta da eventi sempre più frequenti disputati in circuiti planetari. La globalità dello sport è determinata dalla semplificazione delle discipline e dall’averle di fatto ridotte, regolamentate e standardizzate. I giochi, che ogni popolo praticava diversamente e che venivano continuamente creati e modificati, hanno ceduto il passo a eventi cristallizzati nelle regole e nelle strutture. Come in natura si teme per la riduzione delle specie viventi, altrettanto sta avvenendo a livello sociale: in tutto il mondo si praticano gli stessi giochi e, soprattutto, s’è ridotto l’interesse a inventarne di nuovi. Il computazionalismo modernista applicato allo sport ci induce a preferire un evento riconoscibile e confrontabile ovunque sia disputato rispetto a un altro innovativo e originale. Non è necessario esprimere un giudizio di valore su cosa sia meglio: entrambe le impostazioni hanno pregi e difetti. Resta il fatto che mediaticamente s’è affermato uno schema specifico e unico così che l’idea dell’evento unico e originale rimane poco interessante per il pubblico odierno.
La retorica sportiva segue con ritardo un trend culturale che in altri campi va esaurendosi. Al linguaggio mediatico “epico” – la narrazione sportiva – oggi si è sostituito quello scientifico e computazionalista. Persino nel calcio e nel ciclismo, le due discipline più “umane” e “politiche”, si comunica sempre più per mezzo di statistiche e quantificazioni e meno con storie. Non è un caso che la famosa frase di Mark Twain (“non lasciare che la verità s’intrometta in una bella storia”) fu in passato ripetuta da vari giornalisti sportivi, ma oggi è meno popolare.
C’è un altro aspetto vetero-moderno del modo in cui si apprezza l’attività sportiva senza che sia stato finora né sostituito né posto in discussione: il maggiore valore attribuito alla specializzazione rispetto alla polivalenza. Emblematico è come tutti conoscano Usain Bolt per la sua eccezionale velocità, ma pochi ricordino i campioni di decathlon. La polivalenza, inoltre, non si dovrebbe limitare alla competenza psico-motoria; piuttosto andrebbe estesa a una complessiva valutazione umana. E in effetti qualche retaggio di questo rimane anche nella narrazione retorica dello sport: lealtà, fair-play, impegno ecc. sono aspetti tuttora apprezzati e descritti per quanto eclissati dalla preponderanza della record-mania che fa preferire le carriere sportive alla gloria della singola impresa. In una condizione umana in cui il progresso e la sfida con la natura presupponevano la specializzazione, la divisione del lavoro e la capacità tecnica di innovare il singolo strumento, l’esaltazione del genio concentrato quasi nevroticamente su una sola cosa veniva di conseguenza. Oggi si potrebbe pensare a rivalutare la bravura di chi non eccelle in nulla, ma è protagonista in tutto. Oltre che nello sport, questa osservazione potrebbe estendersi alla cultura e alla conoscenza, ma il discorso diventerebbe troppo ampio. Se per brevi periodi della vita si può accettare culturalmente e da un punto di vista educativo che un giovane si dedichi completamente a un sola attività, l’obiettivo di una Bildung articolata e comprensiva, sia pure iniziata dalla pratica motoria, dall’agonismo e dalla relazione con il corpo, non dovrebbe essere secondaria nella valutazione complessiva della persona percepita anche soltanto nella prospettiva atletica.
Nei termini posti dall’enciclica, la crisi ambientale dipende anche dalla nostra incapacità di vedere la natura nella sua complessità e accettare la stretta interrelazione dei fenomeni. Il Papa arriva a concludere che la specializzazione scientifica rappresenti uno dei motivi originari degli attuali problemi. Per esteso allora, anche l’esasperata specializzazione nello sport – che non dimentichiamo è una metafora – andrebbe sostituita con un approccio che valorizzi un insieme di qualità sempre diverse, non catalogabili e misurabili, estese agli ambiti fisiologici tanto quanto a quelli culturali e psico-sociali.
Atletica e nuoto contro (quasi) tutti
Nell’atletica e nel nuoto questa impostazione è portata agli estremi. Atletica e nuoto sono assolutamente naturali: l’atleta è nudo e solo contro la natura. Vi potranno anche essere avversari umani, ma prima di tutto egli dovrà combattere senza disporre di alcuno strumento se non il proprio corpo contro i suoi limiti[5]. Per esaltare questo aspetto, gli impianti e le competizioni sono stati codificati e omologati. La componente casuale in una gara di ciclismo, la situazione inaspettata creata dalla fantasia innata del giocatore di calcio, la complessa interazione dei giochi di squadra, incluse quelle psicologiche dei rapporti tra compagni, dirigenti e allenatori; le tattiche e persino la politica, gli imbrogli e il denaro, rendono alcuni sport ancora profondamente complessi, “umani” e in definitiva “politici”, quindi impossibili da ricondurre ai soli principi del “più forte, più alto, più veloce”. In altri sport gli attrezzi giocano un ruolo importante – vedi lo sci, la bicicletta stessa, per non parlare degli sport motoristici. Quando entra la questione di decidere chi sia il più “bravo” – come nella ginnastica o nei tuffi – si incorre nella trappola dell’impossibilità di eliminare i giudizi soggettivi. Gli sport complessi – calcio, ciclismo, baseball, basket ecc. – sono molto popolari e mediaticamente interessanti proprio perché rappresentano una metafora della vita in cui tutto avviene più velocemente che nella realtà: la vita atletica di una persona dura quanto quella di un animale domestico così che nel corso di una sola vita, ciascuno vede nascere, fiorire e sparire più generazioni di atleti. L’evento dura qualche momento e persino tornei e campionati si esauriscono ogni volta per poi ricominciare ex-novo. Il fascino dello sport è inoltre dato dal termine ineluttabile del risultato finale così che la cerimonia di premiazione simbolizza la pietra tombale posta sull’evento.
L’atletica e il nuoto – fondamentali dal punto di vista scientifico, educativo e culturale – mediaticamente non sono molto interessanti salvo che per la purezza e la semplicità della competizione che porta a un risultato non controverso. Se si esclude la costruzione del personaggio e dell’evento, la componente più emozionante per lo spettacolo consiste nel superamento del “record” – personale o mondiale che sia – che altro non è che la hybris(violazione, orgoglio) perpetrata per sfidare le proprie limitatezze. Nella modernità, questa violazione, la cui legittimità nel significato originario era posta in dubbio, è giudicata di per sé un atto catartico, senza bisogno di subire alcuna nemesi. A livello di narrazione globale l’anelito è stabilire i limiti delle capacità corporee umane assolute; e di superarli costantemente, altrimenti non avrebbe senso individuarli. Sembra inoltre ovvio che il record vada “omologato”, cioè reso comparabile ad altre prestazioni ottenute ovunque nel mondo. Anche questo è un aspetto peculiare della modernità nella versione della società di massa. Si tende a stabilire parametri fissi e calcolabili al fine di semplificare e omologare i comportamenti umani e consentire di parlare lo stesso linguaggio universale. La prevalenza di questo modo di pensare – che ha una sua nobiltà intellettuale e morale e che ha svolto utili funzioni nello sviluppo umano – non deve portare a trascurare che si tratta di un’impostazione in cui l’individualità, l’unicità della persona e del luogo sono sacrificati a causa dell’esiguità dei parametri di valutazione. Né si deve omettere di ragionare sul fatto che questa impostazione abbia fatto il suo tempo e vada sostituita o almeno affiancata a un’altra. Esistono infatti alternative nell’intendere il rapporto tra umanità e natura e tra mente e corpo anche in relazione allo sport. Forse proprio per questo la pratica di massa del nuoto e dell’atletica sono oggi meno popolari che un tempo.
Doping e rischio tecnologico
Un ostacolo, pure sintetizzato dal motto olimpico, nasce dall’idea dell’andare continuamente oltre, più veloce, più alto e senza porre limiti. Sarebbe un errore sciocco negare il valore educativo personale di queste discipline, e dello sport in generale, che stimolano gli atleti – sempre metafore dell’umanità – a migliorarsi continuamente. Né si deve negare il valore della ricerca personale, persino ossessiva, del proprio limite nel correre (o nuotare) una distanza, saltare più in alto o lanciare un attrezzo più lontano. Anzi, proprio la concentrazione nell’applicazione massimale delle proprie capacità fisiche, favorisce una migliore conoscenza del proprio corpo e induce a pensare in termini di unità tra corpo e mente come difficilmente sarebbe possibile senza lo stimolo della competizione contro gli altri e se stessi. Tuttavia, nella pratica e nella narrazione globale mediatica, si replica nello sport la crisi del rapporto tra umanità e natura o, in altri termini, la separazione tra corpo e mente. La retorica e i linguaggi svelano questa mentalità. Abbiamo detto della metafora tra atleta e macchina in cui inoltre l’allenamento viene talora esplicitamente chiamato “costruzione”. Non si pensa soltanto a mettersi nelle condizioni migliori per ottenere la migliore prestazione possibile, ma ci si sottopone a lunghi periodi – che durano anche un decennio e più – di lavoro al fine di trasformare il proprio corpo per renderlo adatto a un’unica specifica attività, non per un miglioramento complessivo. Va da sé che per accelerare questi processi di trasformazione si pensi di utilizzare farmaci oggi disponibili. In un certo senso – qualcuno l’ha fatto in sede di processi penali – il doping sportivo aiuta il progresso scientifico e tecnologico tramite la sperimentazione. D’altronde, qual è il limite dell’applicazione di una tecnologia di fronte a un rischio incerto? Il problema del doping si pone su un piano assimilabile all’introduzione degli OGM: una modifica profonda e rapida della natura attuata per mezzo di una tecnologia invasiva, sebbene secondo alcuni sicura. Anche se la modifica del corpo dell’atleta non avviene facendo uso di farmaci e di doping, tuttavia dal punto di vista etico e psicologico rappresenta pur sempre un discutibile atteggiamento di rifiuto di se stesso, dei propri limiti e dei propri caratteri fisici che la natura (Dio) ci ha dato. E comunque l’idea che possiamo modificare a nostro piacimento il nostro corpo apre una via maestra verso l’uso dei farmaci e del doping[6]. In tutto questo l’idea dello sport come promozione della salute, dell’educazione e di un’armonia tra corpo e mente è sostituita con la pura ricerca del conseguimento dell’obiettivo.
Tornando al rapporto tra umanità e natura, questo atteggiamento si pone sullo stesso piano di numerosi altri comportamenti che oggi sono attivamente discussi in bioetica. Si potrebbe fare un confronto con la fecondazione assistita che grazie all’assunzione di dosi pesanti di ormoni (doping?) consente a donne altrimenti sterili di avere figli. Certo il desiderio di maternità può a ragione considerarsi più “naturale” e legittimo di quello di competere ad alto livello in gare sportive a volte con rilevanti benefici economici. Tuttavia si tratta in entrambi i casi di manipolazioni sul corpo che oggi sono diventate possibili e comunemente praticate. Un altro paragone tra bioetica ed etica sportiva lo si riscontra nel processo di medicalizzazione (artificializzazione) di numerose azioni e situazioni, quali ancora una volta il parto, ma anche le diete e la chirurgia estetica.
Rivelatrice di un’allarmante mentalità, diffusa nel linguaggio mediatico sportivo, è la frase spesso proferita nelle interviste in modo spensierato e innocente dagli atleti: “darò il 110%”. Tutti coloro che hanno partecipato a una competizione sportiva coinvolgente l’hanno pensato prima di cimentarsi. Quel 10% in più rappresenta il desiderio di portare la mente oltre se stessi, al di là dei limiti del proprio corpo. Un desiderio naturale e profondamente umano, ma pericoloso se incoraggiato. Non si pensa che incoraggiare questa normale aspirazione a superare i propri limiti potrebbe essere l’anticamera psicologica del doping: quando ti accorgi che non si può dare più di quanto la natura ha concesso, per raggiungere il sogno del 110% diventa spontaneo e si vive come legittimo colmare con il doping la differenza.
L’educazione ambientale applicata allo sport
L’enciclica interviene su questo tema quando afferma che:
“(l)’educazione ambientale è andata allargando i suoi obiettivi. Se all’inizio era molto centrata sull’informazione scientifica e sulla presa di coscienza e prevenzione dei rischi ambientali, ora tende a includere una critica dei “miti” della modernità basati sulla ragione strumentale (individualismo, progresso indefinito, concorrenza, consumismo, mercato senza regole) e anche a recuperare i diversi livelli dell’equilibrio ecologico: quello interiore con sé stessi, quello solidale con gli altri, quello naturale con tutti gli esseri viventi, quello spirituale con Dio” (Enciclica “Laudato sì’”, 210).
Anche l’educazione sportiva dovrebbe riprendere questo spunto poiché in definitiva la coscienza del corpo è un aspetto dell’educazione ambientale se si pensa, come ci invita a fare il Papa, a recuperare un rapporto equilibrato con la natura, di collaborazione e non di sfruttamento. Sfruttare il corpo oltre misura, manipolarlo a nostro piacimento, utilizzarlo anziché viverlo, sono tutti peccati contro natura. Sarebbe allora necessario cominciare a rivedere una retorica e un linguaggio dello sport che sono accettati passivamente e dati per unici e scontati. Un passo avanti sarebbe inoltre pensare a un’organizzazione di eventi sportivi, altrettanto mediatici e popolari, in grado di promuovere i valori della competizione, dell’impegno e del sacrificio, ma allo stesso tempo li depurino dalla ricerca dell’assoluto, del superamento dei limiti, della specializzazione ecc. Infine, riportare lo sport in ambienti quotidiani e naturali costituirebbe il primo passo alla ricostruzione di una pratica olistica e non specializzata dell’attività motoria agonistica e quotidiana.
BIBLIOGRAFIA
Crutzen PJ, Stoermer EF (2000), “The Anthropocene” in Global Change
Newsl 41:17–18
Visconti G. (2014), “Anthropocene: another academic invention?”, Rend. Fis. Acc. Lincei 25 (3): 381–392.
Jonas H. (2002), Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, curato da P. P. Portinaro, Biblioteca Einaudi; edizione originale tedesca 1979.
Arendt H. (1994). Vita Activa. La condizione umana. Bompiani, Milano; edizione originale inglese 1958.
Santo Padre Francesco (2015), “Lettera enciclica “Laudato Si’”, sulla cura della casa comune. Libreria Editrice Vaticana, Roma.
[1] Nell’enciclica papale (2015), il riduzionismo è citato due volte (al paragrafo 92 e al 107) in modo molto critico anche se il termine non è usato nella sua accezione epistemologica riferita esplicitamente al metodo cartesiano.
[2] La scomposizione della natura, anche solo a livello di metodo analitico, è un aspetto della sua frammentazione in parti minuscole ed emblematizza la fiducia nel tentativo di dicomprenderne la complessità sommandone e parti. Per altro verso, la scomposizione sarebbe già una distruzione e un modo inefficace per com-prenderla davvero.
[3] Nel 2008, la Geological Society of London annunciò l’ingresso dell’umanità in una nuova era geologica definendola Antropocene. La definizione era stata proposta già anni prima da Crutzen e Stoermer (2000) e Stoermer aveva cominciato a usare il termine già negli anni ottanta. Questa nuova era seguirebbe l’Olocene e sarebbe caratterizzata dalla presenza di un’umanità che rappresenta la maggiore forza e il più rilevante agente geologico. Secondo la Geological Society l’era dell’Olocene – il periodo interglaciale in cui si è registrato un clima insolitamente stabile che ha permesso la rapida evoluzione dell’agricoltura e della civiltà urbana – è terminata e la Terra è entrata in un intervallo stratigrafico senza equivalenti negli ultimi numerosi milioni di anni. Per un’analisi critica e dettagliata, cfr. Visconti G. (2014).
[4] La corsa dei m. 3000 siepi, da decenni nel programma ufficiale delle Olimpiadi, altro non è che una corsa campestre trasferita in uno stadio al fine di avere parametri fissi. Allo stesso tempo, le corse campestri che costituivano eventi importanti in passato, sono oggi residuali rispetto alle competizioni più seguite proprio per l’impossibilità di confrontare tempi e prestazioni.
[5] Alcuni si sono giustamente domandati se il salto con l’asta sia a pieno titolo una gara di atletica leggera poiché si utilizza un attrezzo che potenzia le capacità umane. Nonostante la pertinenza dell’osservazione, il salto con l’asta è entrato a fare parte della tradizione olimpica e l’esempio ha solo valore esplicativo.
[6] Si badi che non sto parlando, e soprattutto non ne parlerò nei seguenti paragrafi, di valutazioni legali o di opportunità, ma di una predisposizione implicita nel modo di intendere lo sport e il corpo nella cultura occidentale moderna. Il ciclista Wiggins, vincitore del Tour de France del 2013 era un ottimo passista con una muscolatura potente, ma pesava troppo per competere con gli scalatori. Si sottopose a una dieta che lo fece dimagrire di quasi dieci chili che sono un’enormità per un atleta già in forma.